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Kobe Bryant, l’Ultimo Morso del Mamba

I 60 punti di Kobe Bryant durante la partita d’addio saranno per sempre immortalati nella storia dello sport

Il 29 novembre 2015 Kobe Bryant annunciò il suo ritiro, effettivo a fine stagione.

Era diventato il più grande giocatore della sua generazione, ma dopo vent’anni, cinque titoli NBA con i suoi Los Angeles Lakers, più di trentamila punti segnati, il suo corpo non era più capace di reggere un’ulteriore stagione da 82 partite.

Cara pallacanestro, ti amerò sempre, ma non posso amarti ossessivamente ancora a lungo. Questa stagione, è tutto ciò che mi rimane.

Kobe Bryant

Kobe non ce la faceva più. La stagione 2012-2013 doveva essere quella dell’ultimo tentativo al sesto anello. Al suo fianco Steve Nash, Dwight Howard, nel finale tentativo per Bryant e nell’eguagliare i sei titoli di Michael Jordan. Ma quell’ultima cavalcata si era spenta, in un amen.

Il tendine d’Achille di Kobe aveva ceduto, e da lì il Mamba non era stato più lo stesso. La stagione 2015-2016 fu quella della passerella d’addio: ogni singola arena NBA attorno agli Stati Uniti si riempì, per il 24. Tutti volevano vederlo, per un’ultima leggendaria volta.

Bryant possedeva ancora la tecnica, la fiducia, l’astuzia e la qualità di gioco, ma era arrivato ad un punto in cui in partita non riusciva più nemmeno a schiacciare. Il suo gioco era ormai fatto di pura intelligenza, genialità tattica ed esperienza, sviluppate in anni e anni di battaglie sul parquet.

13 aprile 2016, Kobe’s Farewell

Il 13 di aprile 2016, dopo un’estenuante stagione, il giorno fatidico giunse: l’ultima volta sul campo, con quella palla rincorsa per una vita. Dire addio a ciò che si ama nella forma più limpida, è uno sforzo immensamente devastante. Quando si ama qualcosa davvero, è impossibile lasciarlo.

La mia motivazione, è il pubblico, la gente che viene a vedermi. Perché potrebbe essere l’unica, o l’ultima volta per loro.

Micheal Jordan

Per Kobe, era diverso. La passione era la sua immortale motivazione, andando oltre il pubblico. C’erano tutti a Los Angeles, quel giorno. Celebrità, tifosi di una vita, amici, nemici. Tutti lì per osservare, far parte, ma anche rubare luce a un momento così grande. “Kobe sta firmando!” era la voce che girava nei corridoi.

Bryant, silenziosamente, tiene in mano un pennarello e mette il suo nome in inchiostro su tutto ciò che gli viene dato, da compagni di squadra, addetti ai lavori e guardie dello Staples Center. Sapevano in cuor loro, che quelle scarpe e quelle magliette, sarebbero diventati cimeli memorabili, un giorno lontano. Non si può mai sapere.

Ma nella mente di Kobe Bryant, c’è altro. C’è la vita, che gli passa davanti, c’è ogni singolo momento passato sul parquet NBA. Dal primo titolo nel 2000, all’ultimo, nel 2010. L’infanzia in Italia, l’innamoramento per il gioco della palla a spicchi, le scuole superiori, il Draft 1996. E poi ogni singolo tiro, in ogni allenamento.

“Ho bisogno che tu ne faccia 50”. Gli disse ridendo, anche prendendolo un po’ in giro, a Marzo, Shaquille O’Neal: amico, nemico, compagno di mille battaglie, controparte in mille storie. Il massimo stagionale di Kobe, fino a quel momento, era di 38 punti. “Uhm, no!” rispose Bryant, lasciando andare un sospiro.

Sapeva anche Kobe che era finita, che era finito. Lo diceva nelle interviste, ai compagni, alla famiglia. E la verità, è che non aveva bisogno di dimostrare nulla a nessuno. Silenziosamente, Bryant affronta la sua finale camminata verso il campo. Fuori, non traspare nulla, dentro, nonostante gli anni, c’è ancora qualcosa che brucia.
Sapeva che doveva andarsene, ma quella notte, almeno quella notte, se ne sarebbe andato alle sue condizioni.

Tutti sapevano, che non ce la faceva più. Che era finita, e che era finito. Eppure proprio quando tutti pensavano fosse così, il Mamba avrebbe morso ancora, per l’ultima mitica volta.

L’ultima leggendaria partita

È una celebrazione: non c’è nulla in palio contro gli Utah Jazz e in TV ci sono solo video celebrativi per Kobe. Sarà una passerella, ma Bryant non è dell’idea. E dal primo secondo attacca, come se in palio ci fosse l’infinito. Ne sbaglia cinque di fila, e chi stava celebrando ciò che è stato, disdegnando ciò che ancora poteva essere, inizia a far valere la sua ragione.

Kobe sente che qualcosa deve cambiare e mette la marcia più alta. Stoppata da un lato, vola dall’altro, finta, tiro perfetto. Il Mamba si era svegliato. Ne mette cinque di fila, uno più difficile dell’altro, quasi disdegnando i suoi compagni di squadra. Non una novità.

Tira e non gli importa, tira e non gli importa. Si ritroverà alla fine del primo tempo con 22 punti, ma con 7 tiri fatti su ben 20 tentati. Era la sua passerella però e andava bene così. Anche se la realtà parlava di una partita che i Lakers stavano perdendo anche per lui. Ma ad ogni tiro il pubblico sospira, e aspetta di esplodere. Anche nel terzo quarto, quando Bryant tenta un tiro da tre, tutti trattengono il fiato: la palla non colpisce nemmeno il ferro e finisce fuori.

Allora lì tutti capirono. Stava dando tutto quello che aveva, tra i dolori, la stanchezza, l’età di un mito ormai esanime. Alla fine del terzo quarto, Kobe aveva tirato più di trenta volte. Era stanco, provato: la realtà è che aveva segnato 37 punti perché ai suoi compagni gli era stato detto di dargli sempre la palla.

All’inizio dell’ultimo quarto, Utah era avanti di quattordici punti. Avevano giocato di squadra, ed erano stati premiati. Ma gli occhi erano tutti su Bryant, su ogni suo tiro: 45 punti. Ci sono voluti altrettanti tiri per arrivare a quel totale. Ed era già abbastanza così. Mancavano tre minuti alla fine. E Utah stava vincendo di dieci. Già i giornali stanno battendo le notizie: “I Jazz rovinano la festa d’addio al basket di Kobe”, “Kobe si ritira con una sconfitta”, “Kobe tira troppo e perde la partita d’addio”.

Bryant lì capì che in quegli ultimi tre minuti di carriera, di passione, avrebbe dovuto scrivere l’impossibile.

La gloriosa conclusione

Palla in mano, lato sinistro offensivo, difende Gordon Hayward, miglior giocatore di Utah in quella stagione. Kobe spinge, spalle a canestro, si gira, finta, tiro rovesciato, dentro.

Possesso successivo, accade lo stesso. Fallo, due tiri liberi, swish. Meno otto. Bryant fece comprendere come non cercasse più i cinquanta punti, ma la vittoria.

Utah sbaglia, ancora, in attacco. Il Mamba serpeggia ancora una volta verso il canestro, e non guarda più nemmeno i compagni di squadra, palleggio terzo tempo e dalla mano lascia andare un tiro a lacrima di una precisione, esperienza, morbidezza unica. Cinquanta punti, meno sei, manca un minuto e mezzo.

Utah non riesce a far entrare nulla, Bryant porta la palla su, in un amen spezza il raddoppio, palleggio arresto, tiro dalla media: dentro. Meno quattro.

Un minuto rimasto, Kobe è posseduto della sua ossessione, ma anche stanchissimo. Giunge alla linea del tiro da tre punti, dalla sinistra, non esita, non aspetta un attimo, e lascia andare l’ultima tripla della sua carriera NBA: solo rete. Meno uno L.A! Time-out Utah.

Kobe Bean Bryant stava compiendo un’opera d’arte, mai vista prima da un giocatore, un atleta durante il suo ultimo grido.

44 Secondi rimasti, i Jazz sbagliano nuovamente. Rimbalzo, palla a Bryant. Porta la palla su, si trova davanti Hayward, il compagno di squadra Julius Randle aiuta nei blocchi, Kobe finta a sinistra, va a destra, dalla media. Mira, spara, segna.

Cinquantotto punti. Vantaggio Lakers. Nel successivo possesso, Utah sbaglia nuovamente, ed è costretta a fare fallo per estendere una partita scivolata dalle mani. Palla a Kobe, fallo, due volte. Due tiri liberi. 59 e 60.

Kobe aveva compiuto la sua ultima grande impresa. Mamba out.

Cara pallacanestro, sarò sempre quel bambino, con i calzini arrotolati, il cestino nell’angolo e cinque secondi rimasti. Palla nelle mie mani: cinque, quattro, tre, due, uno..

Kobe Bryant

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