Il falso mito dei Miami Heat e della Heat Culture
La tanto decantata Heat Culture non starà diventando un limite per questa franchigia?
Quando pensiamo alle peggiori squadre sul mercato, di solito le prime a finire sulla croce sono i vari Clippers, Bulls e compagnia; eppure, i Miami Heat sembrano avere tutta l’intenzione di reclamare una nomina tra i flop di questa free agency.
La sensazione che si ha guardando al modo in cui vengono tutelati gli Heat dai pilastri dei media cestistici americani è che ci si fidi incondizionatamente dell’operato del front office, storicamente abile nel creare un’isola felice in cui tutti rendono al 120% delle proprie possibilità, grazie alla proverbiale Heat Culture al lavoro di colui che è per distacco il miglior capo allenatore della lega, Erik Spoelstra.
In realtà, se guardiamo all’operato di Pat Riley e soci negli ultimi anni, troviamo una serie di sessioni di mercato fallimentari, in cui i vari Damian Lillard, Kyrie Irving, James Harden e Donovan Mitchell, obiettivi dichiarati della franchigia, sono sfumati e finiti in mete decisamente meno fashion della Florida, segno di come, verosimilmente, gli Heat non abbiano mai neanche provato con convinzione a prenderli.
Se guardiamo solo ai risultati sportivi, troviamo i ragazzi di Spo sempre piuttosto in alto, anche se l’ultimo Titolo NBA risale all’epopea di LeBron e Wade. Ciò è sintomatico di come il roster sia eccellente, anche grazie ad una profondità data dal continuo fiorire di giovani interessanti (come testimoniano, per restare sull’attualità, gli ottimi risultati ottenuti in Summer League), ma anche di come, per compiere l’ultimo e decisivo passo, uno dei nomi citati sopra avrebbe saputo dare una grossa mano.
Bam Adebayo e soprattutto Tyler Herro sono due ottimi giocatori, ma non hanno ancora raggiunto la definitiva imposizione tra i top di ruolo a causa di lacune croniche che sembrano ormai irrisolvibili; Jimmy Butler è un animale da competizione, che ai Playoffs esplode con prestazioni allucinanti, eppure gli anni passano e al numero 22 manca l’integrità fisica e mentale (considerando anche i mesi di vacanza che puntualmente si concede in Regular Season) per guidare una squadra al titolo.
Tutto quello che abbiamo detto ci riporta alla questione iniziale: cosa non sta funzionando a Miami? La proverbiale severità e rigidità del front office, da Pat Riley in giù, sta pian piano diventando un limite e non sembra più al passo con la NBA moderna, in cui le squadre sono portate a modificare ciclicamente (spesso con persino troppa frenesia) i roster per trovare la quadra vincente.
In poche parole, a questi Heat servono innesti, come per Boston sono stati i vari Jrue Holiday e Kristaps Porzingis nell’ultimo anno, perché senza top players in tutti i ruoli non si vince l’anello. Questo immobilismo collettivo, che dura ormai da 3 stagioni, non sta facendo bene davvero a nessuno.