Breve storia di Kobe Bryant
Riviviamo i momenti che lo hanno reso una leggenda, raccontando l’uomo oltre al giocatore
Il Kobe Bryant giocatore ha incantato gli spettatori seduti nei palazzetti e quelli incollati alla TV per oltre 20 anni di onorata carriera. Bandiera dei Los Angeles Lakers, i cui momenti migliori della carriera rimangono indelebili nei nostri ricordi. Pluri-campione NBA, le imprese compiute sui parquet di tutto il mondo lo precedono e nonostante sia sempre bello ricordarle, dietro al compianto Black Mamba c’è molto di più.
La vita della leggenda che nella sua carriera ha indossato i numeri 8 e 24 è stata piena di esperienze, di controversie, di gioie e di dolori. Il destino beffardo ha deciso di spegnerla il 26 Gennaio 2020, oggi ricorre l’anniversario di quel giorno funesto e noi vogliamo andare oltre la semplice pallacanestro.
Kobe Bryant visto ai raggi X: dai soprannomi alle apparizioni sul grande schermo, dall’amore per la famiglia all’infanzia in Italia seguendo papà Joe.
Kobe Bean Bryant
La vita del fenomeno visto in maglia Lakers è caratterizzata dal mito ancor prima che venisse al mondo. Tanti sono gli aneddoti legati al suo nome di battesimo e ai suoi soprannomi, alcuni frutto delle sue giocate, altri partoriti da una mente geniale e spesso autocelebrativa. Il nome con cui tutti lo conosciamo, Kobe, è stato scelto dopo che i suoi genitori avevano visto sul menù quanto fosse pregiata la carne giapponese, in vendita anche a 1000 dollari al chilo.
Affinché un nome così raro rimanesse ben impresso, accompagnarlo ad un secondo più spiritoso e strettamente legato al padre, avrebbe dato al giovane un tocco istrionico; così l’opzione Bean fu la più accreditata, presa dal soprannome di papà Joe, chiamato “Jellybean” lungo il corso della sua carriera.
Il giovane Kobe si è guadagnato la fama di giocatore più temibile e instancabile, grazie soprattutto all’etica del lavoro e quella costante voglia di migliorarsi che non lo ha abbandonato nemmeno dopo il grave infortunio subito al tendine d’Achille.
Almeno una volta nella vita avrete sentito parlare di “Black Mamba“, soprannome che il nostro protagonista ha scelto in correlazione al rettile tra i più velenosi e pericolosi al mondo. Il serpente, in grado di spostarsi ad una velocità pari a 20 km/h e abbattere anche prede più possenti, spiega alla perfezione come Bryant abbia scelto di vedersi nel mondo della palla a spicchi: una minaccia per ogni avversario che osasse sfidarlo.
Nel prosieguo degli anni, ogni simbolo, ogni numero e ogni nomignolo non sono stati scelti a caso, questo rende il nativo di Philadelphia un’icona a 360°. L’8 (scelto in memoria della sua infanzia italiana e del primo approccio al basket) e il 24 (il suo primo numero alla Lower Merion High School) hanno sancito due percorsi differenti nella sua vita, l’era Kobe-Shaq e l’era Re-Peat; scelte legate alla sua crescita da giocatore e da uomo.
In 20 anni di prodezze, la bandiera dei giallo-viola ha saputo rimanere impresso come una cicatrice sulla pelle e non importa quale fosse il nome o il soprannome con cui veniva chiamato (Mr.81, Vino, Mamba Mentality, Lord of the Rings, The Dagger, Izzo, KB24), era fondamentale che si parlasse di lui.
Enfant Prodige
Che il ragazzo avesse qualcosa di speciale lo si era già visto negli intervalli lunghi delle partite di Reggio Emilia, dove un Kobe di 10 anni metteva già in mostra tiri da 3 e spiccate doti di ball handling contro i compagni di papà Joe. Il basket era dentro di lui, i Bryant avevano capito che avrebbe seguito le orme di “Jellybean” e non ci sarebbe stato modo di fargli cambiare idea, nemmeno quando gli veniva detto che per diventare bravo sarebbe stato necessario allenarsi tutti i giorni e non mollare mai, anche davanti ai giorni più difficili.
Il nostro ragazzo ha sempre preso queste parole come una sfida a migliorare se stesso, costi quel che costi, le ore in palestra e in sala pesi saranno ripagate dai successi e quando la NBA verrà a cercarlo, lui sarà pronto a rispondere affermativamente.
Muove così i primi passi sui parquet italiani, in estate partecipa a diversi tornei sulla penisola e non teme avversari più dotati, più fisici e/o più anziani. Per Kobe Bryant conta solo vincere e fin da piccolo sviluppa questa ossessione per portare a casa successi, ogni sconfitta è un fallimento, anche se uno sprono a tornare più forte di prima. Sarà proprio un anno fallimentare alla Lower Merion HS di Philadelphia, il primo, a svegliare il killer instinct del giovane.
Dopo il record negativo di 4 vittorie e 20 sconfitte, nei successivi tre anni il suo liceo registra ben 77 vittorie e appena 13 sconfitte, Bryant ricopre tutti e cinque i ruoli del quintetto e chiude il junior year con 31.1 punti, 10.4 rimbalzi, 5.2 assist, 3.8 stoppate e 2.3 palle rubate di media a partita.
Queste prestazioni valgono l’interesse dei college più prestigiosi, ma lui si sente pronto per il doppio salto. Il 26 giugno 1996, non ancora maggiorenne, Kobe viene scelto dai Charlotte Hornets e poi scambiato ai Los Angeles Lakers, diventando il nuovo “enfant prodige” della Lega.
Mamba da Oscar
Raccontare a parole la carriera di Kobe Bryant sarebbe riduttivo, potremmo elencare 24 motivi che lo hanno reso immortale, anche se fermarsi al mero palmarès o alla statistica spicciola non approfondirebbe quanto quest’uomo abbia donato alla vita di tutti. La pallacanestro è stato il suo campo d’azione e ha generato simpatie ed antipatie nei suoi confronti, ha fatto gioire tifosi e impazzire avversari, ma fermarsi a questo renderebbe la sua vita strettamente legata allo sport.
Kobe è stato molto più dei titoli vinti, dei record di punti segnati, non solo la bandiera dei Los Angeles Lakers o l’erede di Michael Jordan (strettamente legato al carattere e al ruolo sui 28 metri), guardando al di fuori dello Staples Center c’è il suo valore inestimabile che trascende un individuo con scarpe da ginnastica ai piedi a cui interessa solo la vittoria.
Kobe è il simbolo della perseveranza e rappresenta per ognuno di noi qualcosa di differente. Ispirarsi a lui ed emularlo è il più grande endorsement ricevuto nella sua carriera. Sapere di aver cresciuto, a livello mentale, generazioni di ragazzi, non ha prezzo.
Bryant si è prestato a numerose attività extra-campo: ha messo il volto sulle copertine dei videogiochi; ha “duettato” con altre stelle dello sport come Messi, Tony Hawk, Michael Phelps negli spot pubblicitari; ha contribuito a rendere Adidas ancora più grande diventandone uno dei principali testimonial, oltre che firmare per numerosi altri brand come Coca-Cola, McDonald’s, Spalding, Nintendo e poi il grande cambiamento firmando per gli americani di Nike.
KB24 è anche sinonimo di grandezza umana, come testimoniano le fondazioni benefiche aperte negli States e in Cina, i programmi di dopo-scuola per ragazzi in difficoltà o il milione di dollari versato con la partecipazione di Activision (casa produttrice del videogioco “Call Of Duty”) per aiutare i veterani di guerra a tornare alla vita di tutti i giorni. Infine tutti gli altri media che hanno contribuito o avrebbero contribuito ad accrescere la sua leggenda: film, libri autobiografici, la musica rap e il documentario “Dear Basketball”, un capolavoro (ammiratelo nel video qui sotto con traduzione in italiano) che gli è valso un Premio Oscar. Poco prima della sua morte stava collaborando ad un libro per bambini con il famoso autore brasiliano Paulo Coelho, ennesima realtà che avrebbe portato nuovamente il compianto Bryant nell’Olimpo.
8 e 24
Oggi è l’anniversario di una tragedia che ha strappato un uomo prima che un campione, il destino crudele ha voluto che a spegnersi con lui ci fosse anche la figlia tredicenne Gianna, entrambi accomunati da un sogno che stavano realizzando attraverso la Mamba Academy. Kobe era desideroso, grazie alla sua secondogenita, di contribuire alla crescita del movimento della pallacanestro femminile e attraverso questa “academy”, avrebbe gridato al mondo che le donne NON sono il sesso debole ed esigono rispetto; in sua figlia vedeva quella Mamba Mentality che lo aveva accompagnato durante la carriera di Laker e questo non poteva che renderlo più grato e fiero. La scomparsa di entrambi ha terminato prematuramente il cammino, lasciando che siano i ricordi più belli a portare avanti l’eredità dei Bryant.
Difficile riassumere Kobe in poche righe o in un libro, per quello che è stato e sempre sarà, abbiamo provato di rendergli onore con questa cerimonia, “ritirando” i nostri personali 8 e 24, lui che è stato l’unico giocatore ad avere due numeri appesi come stendardo in un’arena NBA. Pensare che non sia più tra noi è la sconfitta più dolorosa da accettare, nonostante fosse ormai fuori dai parquet dopo quei famosi 60 punti contro gli Utah Jazz, la sua presenza fissa allo Staples Center riusciva ad incutere timore o a strappare un sorriso a chi lo vedeva seduto in prima fila, certo di ricevere un consiglio o una battuta velenosa in pieno stile Black Mamba.
In testa scorrono le immagini di Kobe Bryant come se la nostra vita ci passasse davanti. L’infanzia in Italia, la Lower Merion, il più giovane giocatore della NBA nel 1996, i trofei vinti, dall’MVP al Larry O’Brien, gli 81 punti contro i Raptors e i 33,463 punti in carriera.
Oggi è il Kobe Bryant Day.
Dentro e fuori dal campo, “Life After Death” ovvero la vita dopo la morte, come recitava il secondo album di The Notorious B.I.G.
Il ricordo sempre vivo di una leggenda senza eguali.
Mamba Out.
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