NBA, il curioso caso di Dwyane Wade

Dwyane Wade compie oggi quarant’anni e abbiamo voluto immaginare la sua carriera raccontata in prima persona

Wade durante la cerimonia di ritiro

Wow, lo stanno facendo davvero. Eccola lì che sale per affiancarsi alle altre. La mia maglia. La numero 3, che per quattordici anni ha raccolto le lacrime di gioia e di dolore, il sudore e la fatica, il trionfo e la sconfitta. Si avvicina a Chris, a Zo, a Shaq, tre con cui ho condiviso questo e molto altro. Quanta strada ci è voluta per arrivare qui, per vivere questo momento. Sono partito che ero già un uomo, già cresciuto, già temprato, per arrivare ad oggi, ad ora, a potermi sedere, a pensare “Ok D, ce l’hai fatta”. È strano e singolare come una semplice canotta che si solleva possa portare con sé così tanto eppure, mentre la guardo salire, mi torna tutto in mente…

Chicago, 1990

Siamo in macchina, anche oggi la mamma non è stata bene, aveva il solito sguardo spento e stanco, però io sono proprio felice, si va al cinema! Non vedevo l’ora, tutti questi brutti momenti sembravano non passare mai ma finalmente possiamo prenderci una serata per noi; posso dimenticare per un istante quei poliziotti che mi hanno puntato una pistola alla testa per costringermi a portarli da mamma, ancora non so perché.

Ma oggi non conta, siamo insieme, Tragil dice che andrà tutto bene e io le credo. La cosa strana è che la strada sembra quella che porta a casa di papà… Buffo, ma la mia sorellona non mi direbbe mai una bugia…

Robbins, 2000

Al diavolo, mi sto divertendo finalmente. Se ripenso a sei anni fa, quando Tragil mi ha lasciato davanti alla soglia di nostro padre, rivedo ancora il bambino che ero, triste, sconsolato, ferito; solo ora riesco a capire cosa lei abbia davvero fatto per me, allontanandomi dal South Side, dalla mamma e dalla droga, dalle gang, dal rischio di una vita dietro le sbarre o forse anche peggio.

Qui a Robbins ho cominciato con lo sport, sono stato un wide reciver non male, ma nel momento in cui ho accarezzato per la prima volta la palla a spicchi, la sensazione del cuoio e della gomma a contatto con la pelle, ho respirato l’odore del playground, tirato a canestro, ho capito che per me non ci sarà mai altro nella vita se non questo.

Al diavolo tutto, la scuola, i voti, le gang. Al diavolo quelli che mi dicono che nei Pro è tutto diverso, io non sono un mollaccione qualsiasi che gioca a basket per passare il tempo. Ho vissuto cose che non mi hanno distrutto allora, non mi distruggerà certo questo.

Al diavolo quelli che non mi vogliono nei loro college, vi farò vedere che Marquette ha fatto bene a volermi reclutare.

Al diavolo, io me ne andrò in NBA.

Wade con la maglia di Marquette University

The Theater, Madison Square Garden, New York, 26 giugno 2003

Perché mi sono vestito così? Sembro un dannatissimo pinguino. Oddio, non sto così male, di sicuro faccio la mia figura. Sio e Zaire sono qui dai, non farti vedere nervoso. Sarà per la mamma, magari. Sono così fiero di lei, finalmente si è ripulita, è riuscita anche a vedermi al college e ora sono qui a farmi scegliere per entrare in NBA. In NBA!! Vale la pena sembrare un pinguino solo per salire a stringere la mano a David Stern: se ripenso a tutti quelli che gliel’hanno stretta prima di me mi vengono i brividi.

Ho provato per diverse squadre, mi hanno chiamato da Denver, ma dubito sceglieranno me come terzo, davanti ho dei mostri. Il tipo di Akron, Ohio, ad esempio. È un fenomeno, davvero. LeBron James, ne sento parlare da anni e non ho nemmeno avuto modo di giocarci contro all’università. Però l’ho visto in azione, incredibile. O Melo e Chris, di sicuro loro sono prima di me, magari me la cavo quarto. Ecco, chiamano! Ovvio, LeBron primo. Alla due toccherà a Melo probabilmente… no, cosa? Milicic? Ci sarà stato un errore!! Quello passa prima di me?? Ah, adesso è toccato a Melo, Denver. Chris a Toronto. Dai, toccherà a me, me lo sento. “Con la quinta scelta i Miami Heat prendono…. Dwyane Wade, da Marquette University!”

James, Anthony e Wade al Draft 2003

Miami!!! Pat Riley mi ha scelto! Pat. Riley. L’allenatore dello Showtime ha voluto me!! Certo, non sarà la piazza migliore del mondo ma senza grandissimi campioni forse avrò più spazio per emergere e far vedere quanto valgo. Ok, faccio le foto di rito, mi danno il #3, e chiacchiero ancora un po’ con LeBron: è un gran bravo ragazzo, non sarebbe male giocarci insieme un giorno…

Dallas, 20 giugno 2006

Gara 6. Siamo in vantaggio 3 a 2. 10.3 secondi dalla fine. Sono sulla linea del tiro libero dopo un fallo, tiro e sbaglio il primo. Maledizione D, concentrati, c’è tantissimo in gioco. Tiro, sbaglio il secondo. Udonis ha preso il rimbalzo! Fischiano!!! È Fallo!! No, passi?? Dio, se i Mavs segnano da tre sarà overtime… siamo stanchi, distrutti… se i miei liberi ci avessero condannato? Non ci voglio pensare. Shaq sorride, Zo e Gary sono due statue. Seguo la rimessa, la palla finisce nelle mani di Terry, si libera, tira…. va dentro, me lo sento, è finita. No!! Ha sbagliato! La palla è nelle mie mani!!! Abbiamo vinto! Siamo campioni!!!

Sento le braccia di Shaq addosso, un abbraccio di gruppo che vale più di ogni altra cosa, piangiamo, ridiamo, c’è ancora tanta incredulità negli occhi di tutti. Ma ce l’abbiamo fatta. Siamo campioni.

Salgo sul palco della premiazione quasi come spinto da una forza superiore, non mi sto rendendo conto di dove io sia, è tutto così magico, così ovattato nonostante ci sia un frastuono intorno a noi. David Stern dice qualcosa sull’MVP delle Finali e mi accorgo che Shaquille sta porgendo a me il trofeo. Sono in cielo, è un sogno, di quelli che non vorresti finissero mai. Mi cercano i giornalisti e io ripeto a tutti praticamente le stesse cose, ma il pensiero in testa è solo uno: “ce l’ho fatta”.

Miami, 8 luglio 2010, “The Decision”

Sono incollato alla TV come ogni altro appassionato di basket o addetto ai lavori, a guardare il mio amico LeBron mentre fa uno degli annunci più importanti della sua carriera. Non so cosa dirà, ne abbiamo parlato per mesi, ma il mio cuore fa un piccolo sobbalzo quando lo sento dire “Porterò i miei talenti a South Beach e mi unirò ai Miami Heat”.

Ne abbiamo parlato, sì, e io sono felicissimo di averlo in squadra; porteremo avanti una dynasty, costruiremo un team così forte da essere ricordato, si unirà a noi anche Chris (Bosh). Tre delle prime cinque scelte del Draft 2003 insieme dopo neanche una decade nella Lega, per costruire un impero. Però…

Però un pensiero minuscolo si insinua nella mia mente. Una frazione di secondo, niente di più: “sarai un secondo violino”. Niente potrà cancellare quanto ho fatto nei primi tre anni agli Heat, né quello che ho conseguito dopo, ma da adesso in avanti non saranno “la squadra di Wade” ma “la squadra di LeBron e Wade” se non addirittura solo di LeBron.

È una frazione di secondo, ma è più che sufficiente. Se costruiremo qualcosa, lo faremo insieme. Se gli Heat vinceranno sarà anche merito mio. Se passeremo alla storia, verrà ricordato il mio nome. Un giorno i tifosi alzeranno lo sguardo e troveranno WADE #3 di fianco agli stendardi da Campioni NBA. Darò tutto quello che ho a questa squadra.

Non sarò un secondo violino.

Sarò una Leggenda.

Chicago, 2016

Sono seduto davanti ad un giornalista che mi fa delle domande sulla Free Agency, su cosa sia successo con la mia ormai ex squadra (a chiamarla ex mi si stringe lo stomaco). Rispondo in maniera cortese, professionale, matura, senza lasciarmi andare a dichiarazioni polemiche: parlo di rispetto e stima reciproche, parlo di amore incondizionato.

Eppure in quel momento non sento niente di tutto questo; sì, sono tornato a casa, a Chicago, la mia Chicago e dovrebbe darmi gioia, ma non è così. Tornano i fantasmi, torna un periodo nero che ho voluto lasciarmi alle spalle, torna tutto quello che non avrei mai voluto vivere e sentire di nuovo. Ero arrivato in alto, altissimo, ho toccato il cielo, le stelle, ho volato più in alto di ogni aspettativa. Ma tutte le cose belle hanno una fine.

Ho votato la mia vita ad un progetto e adesso ne sono dovuto uscire, tornando al punto di partenza. Chicago, casa.

Non la sento più tale, non sento più granché a dire il vero. Vorrei che ci fosse un altro modo, vorrei tornare indietro e rivivere quello che ho provato ogni volta che sono entrato all’American Airlines Arena.

Vorrei, ma a questo punto non so davvero cosa sarà del mio futuro, per la prima volta da quando avevo 8 anni davanti al portone di mio padre.

Brooklyn, 10 aprile 2019

Speravo di chiudere a casa la mia carriera, la mia casa per 14 anni e probabilmente per sempre. La casa in cui sono rinato e sono cresciuto, come uomo, padre, giocatore.

Miami. Alla fine sono ritornato per un ultimo anno, l’ultimo in assoluto: mi hanno riaccolto a braccia aperte e io mi sono fatto abbracciare, come un figlio che torna a casa dopo un lungo viaggio. A livello sportivo l’ho lasciata ieri con un bel regalino: 30 punti contro i Sixers, non malaccio per un trentasettenne all’ultima stagione. A livello umano non la lascerò mai, non mi lascerà mai. Ma oggi sono a Brooklyn, la tappa finale di un percorso lungo 16 anni. Mi hanno omaggiato tutti, sono venuti a vedermi perfino Melo, LeBron, CP3, amici di una vita che seduti a bordo campo per il mio ultimo saluto. Non me ne sono andato in punta di piedi, no.

Ho voluto chiudere in bellezza. Se avessimo vinto sarebbe stato meglio per tutti, me, la squadra, i tifosi, ma non è andata; però chiudere con una tripla doppia non è un brutto modo per andarsene.

Ne parlo con i giornalisti: “È come se tutto quello che ho fatto avesse portato a questo momento, il duro lavoro, gli infortuni, i tempi difficili. Spero di continuare ad ispirare la nostra gente, i nostri tifosi, dopo essere stato uno a cui non è stato regalato niente, che non aveva il favore del pronostico. Anche quando sono arrivato in NBA non ero un favorito, ma ho continuato a credere in me, a tenere la testa bassa e lavorare.

Miami significa tutto per me, sarà sempre casa mia. Questa è la fine della parte sul basket per me, ma c’è ancora molto che voglio fare per questa città, ancora tantissimo che possiamo raggiungere insieme”.

Insieme. Io e te, la mia città. La mia casa. Miami.

Miami, 22 febbraio 2020

Eccola lì che sale verso l’alto, spinta da Zaire e Gabi. La mia maglia. Wade #3. L’emozione è infinita. Mi introduce Pat, l’uomo che mi ha scelto, che mi ha dato l’opportunità di essere qui oggi a vedermi raggiungere ancora una volta il cielo. Alla fine tocca a me, è il mio turno di parlare. E lo faccio: ringrazio tutti e intanto guardo quelle che sono le mie più grandi conquiste.

Sono un campione NBA, una leggenda degli Heat eppure sono molto di più.

Sono un marito, il migliore possibile, con gli alti e bassi che fanno parte di un matrimonio.

Sono un padre: amo i miei figli più della vita stessa. Vedo Zaire che costruisce il suo futuro percorrendo i miei passi e non aspetto altro che essere al suo fianco quando verrà chiamato al Draft. Come ogni padre spero possa essere migliore di me.

Wade insieme alla famiglia

Vedo Zaya che muove i suoi passi in un mondo difficile, che fa fatica ancora adesso ad accettarla. Molti mi hanno chiesto come abbia fatto io stesso, come abbia reagito quando mi ha chiesto di essere chiamata con nome femminile ed essere trattata a tutti gli effetti come tale: quelli che me lo chiedono con stupore non conoscono l’amore di un padre, non conoscono l’orgoglio del vedere che i propri figli sono in grado di scegliere da sé il proprio futuro, anche così giovani. Io la supporto e la supporterò sempre, qualsiasi cosa decida.

Sono un figlio: ho la fortuna di vedere d’innanzi a me mio padre e mia madre, che hanno tracciato il sentiero che ho percorso finora, nel bene e nel male, nei tempi bui e nelle gioie.

Sono un leader: vedo i miei compagni di squadra, vecchi e nuovi, ritirati e in campo. Sono la mia seconda famiglia

Sono Dwyane, il bambino spaventato di 8 anni che non sa cosa il futuro gli riservi, l’uomo che trent’anni dopo ha tutto quello che Dio e la vita possano donare.

E tutto questo mi balena davanti agli occhi mentre parlo, in un Flash.

Leggi anche

Loading...